2012 aprile
AGENZIA DELLE ENTRATE, INPS E SUICIDI DI POVERI ITALIANI
3:59 pm in AVVOCATO AGENZIA DELLE ENTRATE, AVVOCATO EQUITALIA, AVVOCATO PIGNORAMENTO by dallasdon
Crisi, disoccupazione e aumentano i suicidi, ma lo stato dov’è?
Pubblicato il05/04/2012

-Di Cinzia Aicha Rodolfi
02/01/2012: Bari,74 anni, pensionato si getta dal balcone Inps chiedeva rimborso.
09/01/2012: Bari 64 e 69 anni, pensionati si suicidano in coppia.
12/01/2012: Arzachena, 39 anni commerciante tenta di asfissiarsi,viene salvato.
22/02/2012: Trento, 44 anni per i troppi debiti si getta sotto ad un treno. è salvo.
25/02/2012: San Remo, 47 anni, elettricista si spara.
26/02/2012: Firenze, 65 anni, imprenditore si impicca.
02/03/2012: Ragusa, commerciante tenta di darsi fuoco.
02/03/2012: Pordenone, 46 anni, magazziniere si suicida.
9/03/2012: Genova, 45 anni disoccupato, sale su un traliccio della corrente.
9/03/2012: Taranto, 60 anni, commerciante trovato impiccato.
10/03/2012: Torino, 59 anni, muratore si da fuoco.
14/03/2012: Trieste, 40 anni, appena disoccupato si da fuoco.
15/03/2012: Lucca, 37 anni, infermiera ingerisce acido.
21/03/2012: Lecce, 29 anni, artigiano si impicca.
21/03/2012: Cosenza, 47 anni, disoccupato si spara.
23/03/2012: Pescara, 44 anni, imprenditore si impicca.
27/03/2012: Trani: 49 anni, imbianchino disoccupato si getta dalla finestra.
28/03/2012: Bologna: 58 anni, si da fuoco davanti all’Agenzia delle entrate.
29/03/2012: Verona, 27 anni, operaio si da fuoco.
01/04/2012: Sondrio: 57 anni, perde lavoro, cammina sui binari, salvato in tempo.
02/04/2012: Roma: 57 anni, corniciaio, si impicca.
03/04/2012: Catania, 58 anni, imprenditore si spara.
03/04/2012: Gela,78 anni pensionata si getta dalla finestra,riduzione della pensione
03/04/2012: Roma, 59 anni, imprenditore, si spara con un fucile.
04/04/2012 Milano, 51 anni, disoccupato si impicca.
04/04/2012 Roma Imprenditore si spara al petto
Nella maggior parte delle famiglie del ceto medio e basso, da due anni a questa parte, almeno un componente ha perso il lavoro, oppure si è trovato in cassa integrazione, oppure ha ridotto notevolmente il suo guadagno, e così succede che tante davvero troppe famiglie oggi si trovano improvvisamente in situazioni di totale incapacità di sopportare anche le spese indispensabili.
Improvvisamente ecco che la realtà del nostro bel paese, parecchio simile a quella di tutti o quasi i paesi del mondo, completamente trasfigurata da questa subdola crisi economica, ci mostra una fotografia di una popolazione versata in una agonia che ogni giorno accelera verso la completa disillusione e innesca meccanismi che facilmente portano alla peggiore depressione. Non si tratta più di quella depressione da noia o da insuccesso, oppure da carenza affettiva che era caratteristica degli anni novanta e dell’ultima decade del secolo scorso; questa odierna è l’angoscia, semplice ma concreta della mancanza di “denaro” per sopravvivere.
I primi mesi del 2012 sono stati caratterizzati dalla effettiva presa di coscienza del reale enorme problema che tocca la stragrande maggioranza della popolazione mondiale, e noi italiani eccoci qua non esonerati, anzi partecipi della sventura che oramai sembra una vera catastrofe. Ecco quindi che il pessimismo latente dello scorso anno, oggi diventa consapevolezza e conferma di una situazione che continua a peggiorare e non dà adito ad alcuna speranza. Sta scomparendo il ceto medio ed aumentano i cosiddetti “poveri” che non sono quelli tali da generazioni, ma lo sono diventati oggi e talmente repentinamente che non sanno neanche come ci si debba comportare. Sembra una battuta infelice, ma è invece un fatto sociale non indifferente l’incapacità di saper reagire, dove magari ci potrebbe essere uno spiraglio di soluzione.
Quando una famiglia che fino a pochi mesi fa, poteva permettersi un tenore di vita medio ed aveva specifiche abitudini e poteva sopportare mensilmente determinate spese, di colpo si rende conto che deve tagliare qualsiasi anche piccolo “superfluo”, perché il suo reddito è diminuito drasticamente, spesso si trova anche nell’incapacità reattiva di riuscire a prendere semplici decisioni, nonché incapacità effettiva di affrontare la realtà dei fatti. Per non parlare poi dell’impreparazione culturale per contrastare un emergenza di tale entità, di una società cresciuta con la fede/credenza dell’onnipotenza del genere umano; nella filosofia (ripresa dai greci pagani) della capacità dell’uomo di crearsi un destino e realizzare qualsiasi sogno perciò anche ricchezza e benessere solo grazie alle sue volontà e sforzi.
Evidentemente, succede che, una falsa e debole certezza basata sull’effimera credenza nella capacità umana di auto realizzarsi come meglio vuole, perciò ottenere quello che desidera, crolla come un castello di sabbia davanti ad una situazione odierna dove non solo esiste una reale impossibilità pratica di risoluzione dei problemi, ma anche una impreparazione culturale e strumentale.
Tale debolezza è anche dovuta al fatto che la mentalità dominante moderna ha sviluppato un’educazione basata, per esempio, sulla teoria dell’evoluzionismo che evidentemente promette risultati di vittoria ove la specie si fortifica e si afferma grazie al miglioramento delle condizioni specifiche dell’individuo e dimentica completamente la possibilità del fallimento dovuto sia alla incapacità e soprattutto dovuto agli ostacoli indipendenti da qualsiasi volontà umana, perciò probabilmente di altra natura, semmai diremmo Divina.
Questa analisi azzardata è frutto di una considerazione verosimile che evidenzia quanto l’uomo, che oggi si crede capace e forte e si sente padrone della sua vita, quando si trova a dover combattere una battaglia ben al di sopra delle sue capacità umane effettivamente limitate, cade nella depressione psichica, nella schizofrenia, e nell’astenia totale.
Non è difficile immaginare come si possa sentire un marito e padre che già da mesi forse anche anni non ha un lavoro, non ha alcun reddito, ma tante spese necessarie, forse il mutuo oppure l’affitto, la spesa di cibo, le bollette dei servizi fondamentali quali luce acqua e gas, e non può pagarli. Non si può banalizzare il sentimento di impotenza e di fallimento di un uomo che non riesce a far fronte a questi basilari bisogni della sua famiglia e cade sconfitto nell’agonia della sfiducia più buia.
Viene spontaneo con una sorta di rabbia, chiedersi dove sia qui lo stato, e dove le istituzioni che hanno certamente compreso la gravità della situazione che ancora dovrà inevitabilmente vedere un ulteriore tracollo, e parlano come fossero solo spettatori invece di farsi parte attiva a salvaguardare disastri di entità insuperabile. Quanti suicidi ancora ? Quante disgraziate sorti, e quale abisso dobbiamo raggiungere prima che si prendano provvedimenti fondamentali ? Come è garantito il diritto costituzionale sul quale la nostra repubblica è fondata, ovvero quello del lavoro?
Non si può pensare di continuare ad accettare un parlamento che non vuole ragionare concretamente e perde tempo in inutili battaglie partitiche e orgogli insensati. La nostra nazione, come tante altre ma questo “mal comune” non ci è di alcun “gaudio”, sta esaurendosi come una sorgente secca. Non si trova lavoro, non si produce lavoro, non si prospetta alcuna possibilità. L’ansia è sempre più difficile da contenere e l’epilogo più comune è quello della distruzione di ogni dignità che spesso vediamo porta ad azioni radicali e irreversibili, per porre fine ad una agonia per molti troppo faticosa.
ESTEROVESTIZIONE AL VAGLIO DEI GIUDICI DI MERITO
5:13 pm in AVVOCATO AGENZIA DELLE ENTRATE, AVVOCATO ESTEROVESTIZIONE, AVVOCATO TRIBUTARIO by dallasdon
LA COSIDDETTA ESTEROVESTIZIONE AL VAGLIO DEI GIUDICI DI MERITO
di Roberto Cordeiro Guerra
Oggetto del contendere, nelle controversie risolte dalle decisioni in rassegna, è l’esistenza di elementi probatori sufficienti a localizzare in Italia la sede dell’amministrazione di società costituite all’estero. A monte della valutazione degli elementi indiziari emergono complesse e rilevanti questioni ermeneutiche, riferite sia al diritto interno che a quello convenzionale e comunitario; problematiche che solo nella decisione del Collegio fiorentino di secondo grado sono scrupolosamente individuate e adeguatamente motivate. Emerge poi un ulteriore profilo applicativo di indubbio interesse concernente la ritualità e validità delle notifiche.
Le questioni rilevanti ai fini del decidere: il luogo della notifica; gli elementi caratteristici della cosiddetta “esterovestizione”; la sede dell’amministrazione
Le decisioni in rassegna rivestono un interesse vivo e attuale poiché affrontano per la prima volta[1] in modo diffuso questioni strettamente connesse alla contestazione della residenza italiana a società aventi sede legale all’estero[2], e più precisamente nell’ambito della Comunità europea.
In dettaglio, a seguito dell’impugnazione di accertamenti che hanno localizzato in Italia la sede dell’amministrazione di compagini straniere (olandesi, tedesche, ecc.), controllate da una capogruppo italiana[3], sono state sottoposte al giudice tributario problematiche peculiari, sia in tema di interpretazione delle disposizioni rilevanti (di fonte interna, comunitaria e convenzionale) che con riferimento alla valutazione delle prove addotte a sostegno della pretesa erariale.
Le questioni comuni di più spiccato interesse investono:
a) la notifica, e segnatamente l’individuazione del luogo presso il quale essa deve essere effettuata nel caso di società con sede legale all’estero alla quale viene tuttavia attribuita dall’ufficio residenza fiscale in Italia;
b) il concetto di “esterovestizione”, sovente richiamato quale nucleo portante della contestazione;
c) la nozione di sede dell’amministrazione e la valutazione degli elementi probatori suscettibili di dimostrare la prevalenza della residenza ai fini convenzionali, alla stregua del composito panorama normativo rilevante.
Le problematiche concernenti la notifica
È significativo che tutte le pronunce analizzate abbiano dovuto affrontare eccezioni relative alla nullità e/o inesistenza delle notifiche degli avvisi di accertamento impugnati. Il problema, in sintesi, si pone alla stregua del quadro normativo di riferimento vigente in materia, secondo il quale:
a) «gli enti diversi dalle persone fisiche hanno il domicilio fiscale nel Comune in cui si trova la loro sede legale o, in mancanza, la sede amministrativa; se anche questa manchi, essi hanno il domicilio fiscale nel Comune ove è stabilita una sede secondaria o una stabile organizzazione e in mancanza nel Comune in cui esercitano prevalentemente la loro attività» (art. 60, lett. c, D.P.R. n 600/1973);
b) «la notificazione deve essere fatta nel domicilio fiscale del destinatario» (art. 60, cit.).
Muovendo da questo dato positivo, i giudici seguono per lo più un’impostazione comune, consistente nell’affrontare il merito della causa (fondatezza delle prove addotte onde dimostrare la residenza italiana delle società negli anni investiti da accertamento) al fine di risolvere le questioni preliminari sollevate in ordine alla validità della notifica degli atti impugnati.
Senza entrare nel dettaglio delle problematiche affrontate con riguardo alla peculiarità di ciascuna notifica, ci pare che siffatto percorso sollevi più di una perplessità, come intuito dalla più meditata sentenza della Commissione tributaria regionale toscana, la quale per l’appunto si segnala per il tentativo di smarcarsi da questa sorta di “inversione” dell’ordine di rilevanza delle questioni processuali.
Da valorizzare, segnatamente, l’affermazione del Collegio fiorentino secondo la quale «l’ufficio non ha eseguito l’unica operazione di notifica che comunque sarebbe stato ragionevole compiere, posto che l’individuazione del domicilio fiscale per il tramite della ritenuta collocazione della sede amministrativa della società in Italia non era presupposto di fatto su cui non vi fosse controversia, ma era invece uno dei punti fondamentali della controversia, per cui l’ufficio non poteva dare per scontato quanto era oggetto di verifica e, ovviamente, di contenzioso».
In altre parole, se la sede dell’amministrazione è sub iudice, ed è invece pacifica la sede legale della società, l’unico modo per garantire che la notifica persegua il suo scopo tipico – portare a conoscenza del destinatario l’atto – è quello di ivi recapitarlo, anche a mezzo posta.
Il ragionamento, condivisibile, può essere ulteriormente specificato e supportato. Nell’individuare il luogo presso il quale notificare l’avviso di accertamento, deve necessariamente farsi riferimento all’esistenza di un domicilio attuale, esistente al momento nel quale la notifica viene eseguita, senza che possa assumere rilievo la localizzazione del domicilio medesimo all’epoca (precedente) dei fatti contestati.
In tal senso militano la lettera della legge («gli enti diversi dalle persone fisiche hanno il domicilio fiscale nel Comune in cui si trova la loro sede legale o, in mancanza, la sede amministrativa») e la necessità di un’interpretazione conforme alla funzione dell’istituto e ai principi che ne governano la disciplina.
La notificazione, quale mezzo di produzione e diffusione di conoscenza[4], per raggiungere il suo scopo tipico deve essere indirizzata in un luogo che, in ragione del legame presente col destinatario, faccia ragionevolmente ritenere che l’atto ivi depositato entrerà nella sfera di conoscenza di quest’ultimo[5] Se, al momento della notifica, nessuno degli elementi indicati dall’art. 60 è localizzabile nel territorio dello Stato, non può certo immaginarsi una perpetuatio di residenza (semel residente, semper residente), in virtù della quale divenga legittimo effettuare la notifica medesima laddove il destinatario ha avuto in passato un domicilio (l’esistenza del quale, per di più, è oggetto del contendere).
E allora, onde evitare una sorta di corto circuito nell’applicazione di un sottoinsieme di disposizioni (quelle sulla notifica degli atti tributari) che appartengono al più vasto insieme della disciplina in tema di notifica, sarà giocoforza, come suggerito dal Collegio fiorentino, perseguire una soluzione (notifica presso la sede legale conosciuta all’estero, anche a mezzo posta) ispirata per l’appunto alle regole generali in materia.
Una diversa ricostruzione ermeneutica (notifica presso il domicilio contestato anche in difetto della sua attualità), esporrebbe la normativa a fondate censure di violazione dei principi costituzionali (artt. 3 e 24 Cost.). Già la Corte costituzionale, con la recente sentenza n. 366 del 7 novembre 2007, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 58, commi 1 e 2, secondo periodo, e 60, comma 1, lettere c, e ed f, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, e dell’art. 26, ultimo comma, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602 «nella parte in cui prevede, nel caso di notificazione a soggetto avente all’estero una residenza conoscibile dall’amministrazione finanziaria, che le disposizioni contenute nell’art. 142 del Codice di procedura civile non si applicano».
L’’illegittimità delle disposizioni in questione è stata motivata in base alla considerazione che «l’esclusione dell’applicabilità dell’art. 142 del Codice di procedura civile si pone in contrasto con gli artt. 24 e 3 della Costituzione, perché pregiudica l’esercizio del diritto di difesa del destinatario della notificazione, non assicurandogli l’effettiva conoscenza dell’atto e determinando un’ingiustificata disparità di trattamento tra i soggetti residenti all’estero, per i quali la disciplina vigente non garantisce l’effettiva conoscenza degli atti tributari, e gli altri destinatari di notificazioni di tali atti, per i quali invece detta conoscenza è garantita»[6].
Insomma, la Consulta ha statuito il principio secondo il quale – pena la violazione del diritto di difesa e del diritto di uguale trattamento tra cittadini e stranieri – ciascuno deve ricevere la notificazione degli atti (ivi compresi quelli tributari), presso la propria residenza o sede, indipendentemente dal fatto che questa si trovi fuori del territorio italiano.
Considerate le ragioni che hanno portato alla declaratoria di illegittimità costituzionale delle norme citate (consistenti nella scelta di preferire l’interesse del contribuente alla conoscenza effettiva dell’atto a quello dell’amministrazione, ogni qual volta l’amministrazione medesima sia in grado di ricercare e procurarsi l’indirizzo del soggetto passivo), deve sottolinearsi come tali esigenze di tutela del contribuente siano del pari ravvisabili nei casi oggetto di esame da parte delle decisioni commentate.
Non solo. Se la sede legale della società destinataria della notifica è posta in uno Stato membro della Comunità, risulterebbero altresì violate le disposizioni comunitarie che vietano la discriminazione in base alla nazionalità (articolo 12 Trattato CE)[7].
In breve, una disposizione la quale preveda che le notificazioni ai soggetti residenti siano fatte presso la propria sede legale, mentre le notificazioni ai soggetti non residenti siano effettuate in ogni caso nel territorio italiano e dunque per definizione in luogo diverso dalla sede legale, finirebbe per comportare una palese discriminazione; ponendo a carico dei soggetti non residenti oneri diversi e maggiori di quelli che gravano sui soggetti residenti per quanto riguarda la conoscenza degli atti di rilevanza fiscale eventualmente loro notificati[8].
Il concetto di “esterovestizione”
In alcune delle sentenze esaminate si nota un tentativo di tratteggiare la figura della cosiddetta “esterovestizione”, al fine di verificare se nel caso sottoposto a giudizio siano ravvisabili i connotati tipici del fenomeno.
In verità, avuto riguardo al diritto positivo, la questione potrebbe porsi come semplice verifica dell’esistenza dei presupposti di fatto (alternativamente, sede legale, sede dell’amministrazione, oggetto principale) necessari per integrare la fattispecie della residenza fiscale in Italia, con tutte le conseguenze che ne scaturiscono in caso di risposta positiva.
Il tentativo operato dai giudici di merito, tuttavia, è quello enucleare, in sede di applicazione della disciplina sulla residenza, quei comportamenti che di essa rappresenterebbero un sostanziale aggiramento, consistente nel fare figurare come fiscalmente residenti fuori dai confini domestici società che di estero hanno soltanto la veste formale (di regola, una sede legale priva di qualsiasi effettività).
In buona sostanza, il concetto di “esterovestizione” farebbe dunque riferimento alla situazione nella quale la collocazione all’estero di una società risulta essere una costruzione di puro artificio, avente l’unico scopo di riferire fittiziamente all’ente straniero attività in realtà condotte nel territorio dello Stato italiano, con l’obiettivo di ottenere un vantaggio fiscale[9].
In questo contesto, elementi tipici della figura sono l’esistenza di un vantaggio fiscale (scaturente dal regime impositivo di favore, rispetto a quello interno, applicabile nel Paese prescelto); il sostanziale svolgimento in Italia del business, risultando perciò privo di motivazioni economiche apprezzabili l’insediamento in altro Stato e, infine, il carattere figurativo della presenza della società nello Stato estero di incorporazione, non svolgendovi essa alcuna attività e mantenendovi perciò una struttura di pura facciata.
Ora, è senz’altro apprezzabile che, ai fini del decidere, si cerchi di comprendere se esistono elementi e circostanze tali da rendere credibile l’assunto di una residenza fiscale estera solo fittizia; è tuttavia forte il rischio, come emerge ad esempio da alcuni passi della decisione della Commissione provinciale di Belluno, che in nome di un sorta di autarchica prevalenza di tale concetto non si tengano nel dovuto conto le disposizioni convenzionali e comunitarie rilevanti in proposito.
Così, ad esempio, affermare che «il fenomeno dell’esterovestizione consente di accentrare in soggetti giuridici residenti in Paesi a bassa tassazione o con esenzione di determinati cespiti reddituali, le partecipazioni nelle sussidiarie esistenti in Italia o all’estero, in modo tale da garantire un controllo sugli indirizzi gestionali delle imprese situate all’estero, senza che i risultati economici di detta attività si riflettano direttamente sulla casa madre»[10], rischia di trasformare qualsiasi sub-holding controllata dall’Italia in una società esterovestita.
Il quadro normativo e giurisprudenziale di riferimento è assai più articolato e complesso, e tale da non consentire affermazioni o definizioni così categoriche.
In primo luogo, è essenziale avere presente che, come inequivocabilmente affermato dalla Corte di Giustizia, il vantaggio fiscale derivante dalla scelta di collocare una società controllata in altro Stato membro è del tutto lecito, anche se costituente l’unico motivo a supporto di detta opzione[11].
Quanto poi all’attività tipica delle holding, è vero che essa non richiede di per se stessa cospicue strutture amministrative e organizzative: ciò non significa, tuttavia, che tali compagini possano senz’altro essere qualificate come costruzioni di puro artificio, quanto piuttosto che caso per caso andrà concretamente verificato se la loro attività tipica sia svolta o meno in un contesto di effettivo stabilimento nello Stato ospitante[12].
Infine, ipotizzare che il luogo presso cui si assumono le decisioni gestionali e operative delle imprese situate all’estero sia sempre quello di residenza dell’azionista, significa di nuovo semplificare eccessivamente, confondendo il potere di comando e coordinamento del gruppo da parte dell’azionista con l’amministrazione delle singole società.
In realtà, proprio la diversità delle vicende oggetto di giudizio da parte di ciascuna decisione suggerisce la necessità di una vigile attenzione al contesto nel quale viene configurata l’esterovestizione e agli elementi invocati per dimostrarla.
Parafrasando la Corte di Giustizia, il fenomeno dovrebbe essere ravvisato solo allorquando si è di fronte ad un costruzione di puro artificio, finalizzata ad eludere la normale imposta sugli utili generati da attività svolte sul territorio nazionale. Talvolta, tuttavia, si ha la sensazione che abbia fatto aggio sulla ricostruzione del dato normativo la convinzione di essere di fronte a società fantasma[13], che tali resterebbero quale che sia l’esegesi delle disposizioni di riferimento. In questa chiave, si può arrivare a comprendere, pur non approvandola, la sommarietà con la quale alcuni passaggi delle decisioni di primo grado approcciano il significato da attribuire a nozioni da sempre discusse nell’ambito del diritto tributario internazionale (sede dell’amministrazione; sede di direzione effettiva, natura del rapporto controllata-controllante). Il discorso cambia però radicalmente laddove il contesto fattuale (ad es.: sub-holding operante nell’ambito di un gruppo con partecipazioni localizzate non solo in Italia, ma in numerosi altri Paesi) sia tale da non permettere tout court semplificazioni o scorciatoie argomentative. Supponiamo, ad esempio, che ai fini del decidere sia necessario giudicare se una holding sia effettivamente insediata nello Stato membro ove è stata incorporata e se ivi svolga un’attività economica effettiva; o ancora che occorra discernere se la capogruppo italiana svolga rispetto alla sub-holding estera funzioni di direzione e controllo, le quali inevitabilmente ne riducono il grado di autonomia decisionale, o piuttosto funzioni di amministrazione diretta e attiva: ebbene , in tali situazioni, la valutazione degli indizi di “esterovestizione” dovrà essere inevitabilmente preceduta da un esatto e scrupoloso inquadramento giuridico dei fenomeni in discussione, in tutte le loro poliedriche sfaccettature. Se la ricostruzione delle premesse giuridiche è carente o confusa, le successive conclusioni finiranno per apparire categoriche e sommarie e come tali non suscettibili di fondare indirizzi giurisprudenziali autorevoli e stabili.
La disciplina interna e convenzionale in tema di residenza e la valutazione degli elementi probatori suscettibili di dimostrarne l’esistenza
Nel merito, ciascuna decisione si confronta con il problema del valore probatorio da attribuire a determinati indizi (documenti, corrispondenza, ecc.) dai quali desumere la residenza fiscale in Italia delle società destinatarie degli accertamenti.
Fatta eccezione per la pronuncia della Commissione tributaria regionale, l’impressione che si trae dalla motivazione delle altre sentenze è quella di un’attenzione scarsa all’esegesi delle disposizioni di riferimento, come noto scaturenti da fonti diverse (interne, convenzionali, comunitarie).
Proprio avuto riguardo al composito quadro normativo rilevante, sarebbe semplicistico intendere la residenza alla stregua di una mera circostanza, come tale suscettibile, alla pari di qualsiasi altro fatto semplice, di agevole prova in via presuntiva. Al contrario, la valenza indiziaria di ciascun elemento probatorio deve essere soppesata avendo sempre presente la fattispecie normativa di residenza fiscale, alla cui integrazione concorrono una pluralità di nozioni positive, ciascuna da mettere attentamente a fuoco.
In altre parole, prima è opportuno chiarirsi le idee sulle definizioni legislative rilevanti; poi verificare se i fatti di cui è causa integrano la fattispecie normativa.
Viene allora in considerazione, in primo luogo, l’art. 73, terzo comma, del T.U.I.R., alla stregua del quale si considerano residenti le società e gli altri enti che per la maggior parte del periodo d’imposta hanno la sede legale o la sede dell’amministrazione o l’oggetto principale nel territorio dello Stato.
Se la società estera alla quale viene contestata la residenza (anche) italiana è localizzata in un Paese con il quale esiste una Convenzione contro le doppie imposizioni, sovvengono poi le disposizioni dettate al riguardo dalla Convenzione applicabile. In dettaglio, l’art. 4 del modello Ocse[14] stabilisce che la residenza di un soggetto deve essere determinata secondo le regole interne di ciascuno dei due ordinamenti. Ove l’applicazione di dette disposizioni conduca all’attribuzione di una doppia residenza, entrano in gioco le cosiddette tie-break rules, ossia criteri volti a stabilire in quale dei due Paesi debba essere considerata residente la società interessata. Segnatamente, ex art. 4, comma 3, del modello «quando, in base alle disposizioni del paragrafo 1, una persona diversa da una persona fisica è residente in entrambi gli Stati, si ritiene che essa è residente nello Stato in cui si trova la sede della sua direzione effettiva».
Infine, giova ricordare che l’Italia, nell’approvare il modello di Convenzione Ocse, ha espresso una riserva all’art. 4, così testualmente formulata: «L’Italia non condivide l’interpretazione espressa nel paragrafo 24 che precede riguardante la persona o il gruppo di persone che esercitano le funzioni di rango più elevato (a titolo esemplificativo un consiglio di amministrazione) quale esclusivo criterio per identificare la sede di direzione effettiva di un ente. La sua opinione è che nel determinare la sede di direzione effettiva deve essere preso in considerazione il luogo ove l’attività principale e sostanziale è esercitata».
Alla stregua di tali disposizioni, si capisce quanto complesso e articolato sia il panorama probatorio da assemblare per provare la “prevalente” residenza domestica di una società con sede legale all’estero.
In prima battuta, occorre dimostrare che essa ha in Italia la sede dell’amministrazione o l’oggetto principale. Più precisamente, siccome l’art. 73 del T.U.I.R. stabilisce che detti requisiti devono sussistere per «la maggior parte del periodo d’imposta», detta prova dovrà essere articolata in modo autonomo – e, quindi, distintamente – per ciascun periodo d’imposta preso in considerazione e avendo cura di dimostrare che le circostanze addotte coprono, all’interno di ogni annualità, un arco temporale superiore alla metà del periodo.
Una volta raggiunta tale evidenza, necessita altresì, alla stregua dell’art. 4, paragrafo 3, della Convenzione modello Ocse, dimostrare che, in base alle tie break rules, essa (residenza fiscale italiana) “prevale” su quella estera ed è, dunque, l’unica rilevante ai sensi della Convenzione. In dettaglio, ciò dovrà passare attraverso l’individuazione delle più rilevanti decisioni strategiche e commerciali deliberate dalla società e la prova della loro assunzione in un luogo sito nel territorio dello Stato.
Infine, quantomeno secondo l’interpretazione dell’art. 4 accolta dall’Italia ed esplicitata in apposita riserva apposta al commentario, nel determinare la sede di direzione effettiva dovrà essere preso in considerazione il luogo ove l’attività principale e sostanziale è esercitata.
Orbene, rispetto al quadro delineato, alcuni passaggi delle decisioni in analisi suscitano più di una perplessità.
Ad esempio, talvolta in modo esplicito, talvolta in modo implicito, emerge una sostanziale assimilazione tra la nozione domestica di sede dell’amministrazione e quella convenzionale di sede di direzione effettiva; e proprio sulla base di questa equiparazione assistiamo alla valorizzazione di alcuni indizi come idonei a dimostrare, al tempo stesso, la circostanza che in Italia si trova la sede dell’amministrazione e quella che qui, del pari, è localizzata la sede di direzione effettiva.
L’assimilazione non convince. L’espressione sede dell’amministrazione (per la maggior parte del periodo d’imposta) deve essere intesa, anche in conformità al dato letterale (sede), come il luogo nel quale è ordinariamente condotta l’attività dell’impresa e dove, dunque, giorno dopo giorno, la stessa è gestita in modo continuativo, nonché manifesto ai terzi che con l’impresa stessa vengono in contatto. In tale luogo, peraltro, possono anche essere prese – ma non solo – le decisioni strategiche relative alla conduzione dell’impresa. Che questo sia il significato da attribuire alla nozione di sede dell’amministrazione è desumibile anche dalla funzione svolta da tale elemento di collegamento: esso vale, infatti, e al pari della sede legale e dell’oggetto principale, ad integrare il più intenso grado di connessione con l’ordinamento, ossia la residenza.
Ebbene, stabilità ed ostensibilità sono requisiti necessari della sede dell’amministrazione proprio perché essa possa identificare, nell’ottica alla quale guarda il diritto tributario, un indice pregnante di radicamento nel territorio e di utilizzo, in senso lato, delle sue infrastrutture. Altrimenti detto: l’insediamento nel Paese deve essere così intenso da giustificare la scelta di chiamare la società a sopportare una quota delle spese pubbliche non con limitato riferimento alla ricchezza di fonte domestica, bensì nei confronti dei redditi ovunque (worldwide) prodotti. Se così è, il luogo ove, episodicamente e senza renderlo noto a terzi, gli amministratori concertano decisioni direzionali non basta, da solo, ad integrare la sede dell’amministrazione, difettando per l’appunto quel liason permanente e tangibile con l’ordinamento che solo giustifica l’attribuzione della residenza.
Quanto invece al place of effective management, è fondamentale per focalizzarne la nozione rammentare che esso è enunciato in una tie-break rule, ossia nel contesto di una regola dirimente per risolvere una situazione di “parità” in punto di residenza fiscale. In altre parole, non si tratta di un quid tale da determinare, da solo, l’impianto della residenza, ma al contrario di un quid pluris, concepito al fine di dirimere la contesa allorché la società è residente in entrambi gli Stati contraenti: esempio tipico, nella letteratura internazionale, quello della sede legale in un Paese e della sede dell’amministrazione nell’altro.
Sul punto, è opportuno riportare la chiara indicazione ricavabile dal commentario all’art. 4 del modello Ocse: «la sede di direzione effettiva sarà ordinariamente il luogo in cui la persona o il gruppo di persone di rango più elevato (a titolo esemplificativo, un consiglio di amministrazione) prende ufficialmente le sue decisioni, il luogo in cui sono adottate le deliberazioni che devono essere assunte dall’ente nel suo insieme»; e ancora «una società può avere più di una sede di direzione, ma una sola sarà la sede di direzione effettiva».
Dal combinato disposto delle norme interne e convenzionali rilevanti risulta dunque che per dirimere le controversie in punto di residenza deve seguirsi una sequenza puntuale e progressiva in ordine ai fatti da dimostrare; scansione alla quale la dialettica probatoria non può e non deve sottrarsi.
Il giudice è in linea di principio libero nel soppesare la valenza degli elementi indiziari posti alla sua attenzione; deve tuttavia necessariamente aver ben presente i fatti ignoti che essi devono supportare, ossia: a) innanzitutto, una stabile collocazione della sede dell’amministrazione in Italia (primo fatto ignoto rilevante) nel periodo d’imposta; b) in seconda battuta (parimenti essenziale), la circostanza determinante che le decisioni strategiche più rilevanti[15] siano state prese nel territorio dello Stato (secondo fatto ignoto rilevante).
Questa sequenza logico-giuridica appare chiara alla Commissione tributaria regionale di Firenze, laddove essa afferma «la continuità è connaturata alla stessa nozione di “sede”, che implica la stabilità del riferimento e perciò la percettibilità da parte di qualunque terzo della collocazione indicata quale centro di gestione e di elaborazione di tutto quanto attiene alla direzione della società e al dispiegamento della sua attività». Di conseguenza, «la prova documentale circa l’esistenza della sede amministrativa in Italia deve essere tale da dedurre la continuità di una gestione amministrativa durata ben quattro anni».
Assai meno convincente, invece, la pronuncia n. 75 della Commissione tributaria di primo grado di Firenze, secondo la quale la circostanza che buona parte della documentazione raccolta dalla Polizia tributaria concerna anni precedenti a quelli oggetto del verbale di accertamento, non assumerebbe rilevanza, giacché il fatto che un ordine si riferisca all’anno prima o a qualche anno prima non interromperebbe il suo valore presuntivo. Ora, si può discutere se il fatto noto della richiesta di un’autorizzazione per un atto di ordinaria amministrazione giustifichi la conclusione che tutte le decisioni, e perciò pure quelle strategiche, maturate nello stesso arco temporale di quelle ordinarie, siano state assunte nel medesimo luogo; tuttavia affatto convincente è azzardare che perfino a distanza di anni, cessato il flusso di autorizzazioni bagatellari, permanga l’attualità indiziaria del fatto noto.
A conferma dell’opinabilità della questione, altro giudice ha inquadrato in modo del tutto diverso il problema delle dettagliate istruzioni provenienti dall’Italia e riguardanti una pluralità di atti di gestione, osservando che «l’esistenza di un penetrante controllo di una società nei confronti di altra e perciò l’assoggettamento della società controllata costituisce fenomeno ben diverso dallo svolgimento delle attività di gestione amministrativa della società controllata. Le due fattispecie non possono essere né sommate né confuse, perché altrimenti situazioni giuridicamente rilevanti, fra loro nettamente differenziate, verrebbero rese coincidenti con effetti aberranti sul piano giuridico». In sostanza, non si può «configurare la collocazione della sede amministrativa di una società presso un’altra soltanto perché fra le due società vi è uno stretto collegamento, che riguarda essenzialmente il coordinamento delle rispettive attività e finalità» (così Comm. trib. reg. Firenze, sent. n. 61/25/07 del 18 gennaio 2008).
Si tratta di uno spunto davvero centrale e da indicare quale oggetto di approfondimento per un più corretto inquadramento del problema.
Per quanto ci riguarda, ci limitiamo in questa sede a due considerazioni.
La prima è che, a ben vedere, anche i cosiddetti “fatti noti”, dai quali muove il ragionamento presuntivo, assumono coloritura diversa a secondo della qualificazione giuridica ad essi attribuita: ad esempio, ricollegandoci alle diverse opinioni espresse dalle decisioni in rassegna, le autorizzazioni possono essere inquadrate quale esplicazione della funzione di indirizzo e controllo piuttosto che come sintomi della sottoposizione ad eteroamministrazione da parte della controllata. Quello che non convince, ovviamente, è la qualificazione occulta, ossia operata senza dar conto della problematica sottostante.
La seconda concerne i progressi compiuti dalla dottrina che, studiando il fenomeno del gruppo[16], ha indagato il contenuto del potere di direzione e coordinamento sulle controllate. È stato al riguardo autorevolmente affermato che «attraverso l’obbligo disposto dall’art. 2497-ter (di analitica motivazione delle decisioni influenzate dall’attività di direzione e coordinamento), si è riconosciuta la legittimità di una direzione unitaria del gruppo, sino al limite che non si verifichi il conflitto d’interessi: all’interno del limite, ad esempio, si legittimano i poteri della capogruppo di acquisire informazioni, di dare istruzioni e di esercitare controlli nei riguardi degli amministratori delle società appartenenti al gruppo anche al di fuori della tradizionale articolazione degli organi sociali, e cioè anche al di fuori dell’assemblea, che rimarrebbe invece l’unica sede deputata all’esercizio dei diritti di socio soltanto per gli azionisti di minoranza»[17].
Una volta di più il diritto, costituendo metro di valutazione dei fatti (e in specie della loro valenza indiziaria), rivendica il suo primato.
Vedi sentenza della Commissione tributaria provinciale di Firenze, sez. I, 24 settembre 2007, n. 75
Vedi sentenza della Commissione tributaria provinciale di Firenze, sez. XVI, 13 ottobre 2007, n. 108
Vedi sentenza della Commissione tributaria provinciale di Belluno, sez. I, 14 gennaio 2008, n. 174
Vedi sentenza della Commissione tributaria regionale della Toscana, sez. XXV, 18 gennaio 2008, n. 61
Esterovestizione, richiesta iva come comportarsi in istanza di accertamento
5:57 am in AVVOCATO AGENZIA DELLE ENTRATE, AVVOCATO ESTEROVESTIZIONE, AVVOCATO TRIBUTARIO by dallasdon
Nella mia istanza di accertamento, dopo varie ricerce inserirò questo testo:
Premesso che:
La Legge n 427/1993 ha recepito in Italia le direttive comunitarie che hanno dettato le regole fondamentali ai fini della armonizzazione IVA in ambito comunitario.
Per gli acquisti intracomunitari eseguiti in Italia, il debitore d’imposta è l’acquirente soggetto passivo; l’IVA è dovuta nel paese di destinazione dei beni .
Tutti i clienti della ditta XXXXX hanno quindi per l’anno 2008 e 2009 già versato l’aliquota IVA e quindi si incorrerebbe in una doppia imposizione d’IVA.
L’Italia e gli altri paesi CEE hanno adottato questo principio per gli anni 2008 e 2009 in cui è stato richiesto il versamento dell’IVA all’azienda XXXXX , ai sensi dell’art. 38 del DL n. 331/1983
La doppia richiesta dell’aliquota IVA viola inoltre la convenzione tra la Repubblica Italiana e la Repubblica Slovacca per evitare le doppie imposizioni in materia di imposte sul reddito con protocollo Praga il 5 maggio 1981
La doppia richiesta dell’aliquota IVA viola inoltre la convenzione normativa fra la Repubblica Italiana e l’Unione Europea. Gli scambi commerciali fra questi Stati sono infatti disciplinati dalla normativa comunitaria (artt 49 e ss. TFUE) che è stata via via recepita dagli Stati aderenti all’Unione Europea. In Italia, in particolare, è stato emanato il D.L. 30.8.1993 n° 331, convertito dalla Legge n° 427 del 29 ottobre 1993.
La doppia richiesta dell’aliquota IVA e il “modus operandi” dell’Agenzia delle Entrate è già stata denunciata anche dalla Commissione per l’esame della compatibilità comunitaria di leggi e prassi fiscali italiane dell’AIDC che ha presentato denuncia alla Commissione UE di illegittimità comunitaria sottolineando che nell’ Esterovestizione il contraddittorio tra Fisco e contribuente è caratterizzato da un «fisiologico» squilibrio tra funzionario, forte di una presunzione semplice, e contribuente, su cui grava l’onere della, spesso difficoltosa, prova contraria.
Premesso tutto questo:
L’azienda XXXXX richiede quindi di non dover ripagare allo stato italiano l’aliquota IVA una seconda volta visto che è stata già intermante versata dai suoi clienti e in caso questa istanza non venga accettata dal vostro ufficio provvederemo ad esporre il contenzioso davanti alla Commissione Tributaria, all’ente competente slovacco di riscossione del DPH (che è il corrispettivo dell’IVA italiana) e a livello comunitario alla Commissione UE di Illegittimità comunitaria e alla Corte Europea dei diritti dell’uomo.
Evitare la doppia imposizione IVA in casi di esterovestizione
2:42 pm in AVVOCATO AGENZIA DELLE ENTRATE, AVVOCATO ESTEROVESTIZIONE, AVVOCATO TRIBUTARIO by dallasdon
Gli strumenti a disposizione dei contribuenti al fine di sottrarsi alla doppia imposizione Iva, sono assolutamente insufficienti e complessi tanto da divenire suscettibili di compromettere il carattere di neutralità dell’Iva e di ostacolare gli scambi transfrontalieri. Con la premessa che è allo studio delle autorità di Bruxelles un rimedio nuovo e più efficace per eliminare la doppia imposizione Iva – rimedio diretto a garantire che le Istituzioni europee vigilino affinchè una stessa operazione imponibile non sia assoggettata ad una duplice imposizione causata da divergenze tecnico/normative ravvisabili fra ordinamenti interni degli stati membri – si cercherà di esaminare in questa sede le attuali possibili soluzioni. Gli strumenti oggi attivabili dai cittadini europei sono relativi solo ai casi in cui origine della distorsione del principio della neutralità dell’Iva sia stata: •una diversa interpretazione tra Stati membri di una disposizione della VI direttiva (oggi rifusa nella direttiva 2006/112/Cee); •una diversa qualificazione di una medesima situazione di fatto o diversa classificazione giuridica sotto cui definire un’analoga operazione; Nel primo caso gli attori comunitari che sarà possibile attivare sono: •il Comitato Iva: adibile dalla Commissione o dagli Stati al fine di ottenere un orientamento comune che potrà sfociare anche in un vero e proprio regolamento del Consiglio; •il Consiglio: che, pronunciandosi all’unanimità, potrà provvedere autonomamente ad adottare tutte le misure necessarie ad una corretta applicazione della normativa Iva ( artico 397 della direttiva 2006/112/Ce); •la Corte di Giustizia delle Comunità europee: istituzionalmente competente a verificare la compatibilità degli ordinamenti nazionali alla VI direttiva; Nel secondo caso i rimedi a disposizione del contribuente sono ancor più limitati. Infatti, non essendo possibile risolvere queste dispute attraverso strumenti comunitari, il Comitato Iva potrà essere chiamato solo per questioni generate da una errata interpretazione della normativa Iva, mentre la Corte di Giustizia non dispone delle attribuzioni necessarie per pronunciarsi su casi di doppia imposizione scaturenti da situazioni proprie degli ordinamenti giuridici . Non esistendo convenzioni bilaterali fra Stati dirette ad evitare casi di doppia imposizione, al soggetto che ha subito una doppia imposizione non rimane altro che rivolgersi alla giustizia tributaria del proprio paese, con la precisazione, tuttavia, che si dovrà agire anche davanti alla giustizia dell’altro Paese.
ESTEROVESTIZIONE, REGGIO EMILIA, MAX MARA, IL FISCO PERDE LA CAUSA
8:14 am in AVVOCATO AGENZIA DELLE ENTRATE, AVVOCATO ESTEROVESTIZIONE, AVVOCATO TRIBUTARIO by dallasdon
Il Fisco
perde la causa
A Maramotti vanno
50mila euro
L’Agenzia delle Entrate chiedeva al patron di Max Mara 45 milioni di euro fra sanzioni e presunte imposte evase, ma la commissione tributaria ha accolto il ricorso dell’imprenditore

Reggio Emilia, 22 gennaio 2010. Il fisco voleva da Luigi Maramotti 45 milioni di euro, fra sanzioni e presunte imposte evase, ma alla fine gli toccherà versare all’imprenditore 50mila euro.
E’ ciò che è costato all’Agenzia delle entrate, fra onorari per avvocati e diritti, il ricorso presentato dal patron di Max Mara che si doveva difendere dall’accusa di evasione fiscale.
La sezione 4 della commissione tributaria provinciale ha infatti accolto, il primo luglio scorso, il ricorso presentato dal patron di Max Mara che era stato accusato di aver evaso 23 milioni di euro di imposte fra Irpeg, Ires e Irap, negli anni compresi fra il 2003 e il 2006.
A Maramotti l’Agenzia delle entrate chiedeva anche 22 milioni di sanzioni. In tutto 45 milioni di euro.
Secondo la Finanza e l’Agenzia delle entrate era emerso che, da verifiche a Marina Rinaldi, si sarebbero trovati elementi per sostenere che la società International fashion trading, con sede a Lugano e succursale dell’omonima società lussemburghese partecipata al 46% da Max Mara Finance, era di fatto una dipendenza del gruppo reggiano.
Questo, secondo l’Agenzia delle Entrate, sarebbe stato sufficiente per configurare la presenza di una società esterovestita, ovvero utilizzata solo per pagare meno tasse.
Ma la commissione tributaria ha letteralmente smontato la tesi dell’accusa. Si legge nella motivazione della sentenza: «La commissione annulla l’avviso di accertamento per assoluta incertezza relativamente all’identità (natura giuridica, composizione, sede, rappresentanza), alla individuazione ed all’esistenza dell’autonomo soggetto di diritto, centro di imputazione di situazioni negoziali e processuali cui avrebbero dovuto far capo le obbligazioni tributarie accertate».
In sostanza la commissione ha sostenuto che non era possibile «stabilire quale tipo di imposta reddituale fosse applicabile (sulle persone fisiche o sulle società)» e che, inoltre, era impossibile stabilire che Luigi Maramotti fosse il rappresentante legale dato che «non uno dei numerosi documenti recava la sua firma».
Inoltre, per quel che riguarda la presunta esterovestizione, la commissione rileva come «nessun altro elemento di prova sia stato fornito al fine di verificare e dimostrare che l’effettiva sede della International fashion trading fosse in Italia».
Aggiunge la commissione: «Anche le ragioni fiscali che, secondo l’ufficio avrebbero indotto alla creazione della succursale elvetica di Ift, non appaiono attendibili». E ancora: la finalità di delocalizzare i ricavi in un territorio che ha un regime fiscale agevolato rispetto a quello nazionale «non appare dimostrata».
Dalla documentazione prodotta dai ricorrenti, infatti, la succursale di Lugano «risulta essere stata assoggettata ad imposte in Svizzera a regime ordinario, inoltre la stessa non ha mai fatto ricorso a procedure di ruling con la confederazione elvetica e non ha beneficiato di alcuna forfetizzazione del reddito».
In seguito a tutte queste osservazioni, la commissione «dichiara la nullità e l’assoluta inefficacia della notifica dell’accertamento effettuata a Luigi Maramotti per carenza di legittimazione passiva e di poteri di rappresentanza del soggetto passivo non identificato delle obbligazioni tributarie accertate».
La vicenda potrebbe non finire qui perché l’Agenzia delle entrate ha tempo fino a metà marzo per presentare ricorso.
Il 3 marzo, poi, il giudice dell’udienza preliminare, Angela Baraldi, deciderà su un eventuale rinvio a giudizio per Luigi Maramotti, patron del gruppo Max Mara, che è stato accusato dalla procura di Reggio di evasione fiscale per omessa dichiarazione.
Nel mirino della Guardia di Finanza ci sono somme che sarebbero state evase fra il 2003 e il 2006. L’indagine penale nei confronti di Maramotti e quella tributaria dell’anno scorso sono molto simili, ma potrebbero anche non riguardare lo stesso argomento.
Pignoramento: Decreto Ingiuntivo come fare opposizione
10:05 pm in AVVOCATO AGENZIA DELLE ENTRATE, AVVOCATO PIGNORAMENTO by dallasdon
L’ingiunzione per decreto ingiuntivo è il provvedimento con il quale un giudice ordina al debitore di adempiere in tempi breve ai propri obblighi, pena azioni esecutive come l’iscrizione di ipoteca o il pignoramento.
Il procedimento di ingiunzione “accertamento con prevalente funzione esecutiva”, mira ad assicurare la rapida formazione del titolo esecutivo. Il decreto ingiuntivo non è una sentenza, ma un forte strumento di riscossione che solitamente le banche utilizzano per snellire le procedure della giustizia. Il procedimento di ingiunzione è un procedimento speciale disciplinato dagli artt. 633 sgg. del c.p.c. L’ingiunzione viene pronunciata quando vi sia una prova scritta del diritto che si vuol far valere ed e’ valutata a discrezione del giudice. Per le banche valgono anche gli estratti delle scritture contabili purche’ regolarmente emessi e vidimati.
Al “ricorso per ingiunzione” devono essere allegate le prove documentali, se il giudice rigetta la domanda ritenendola insufficientemente giustificata lo comunica richiedendo ulteriori prove. Se il giudice ritiene motivata la richiesta, ingiungera’ all’altra parte entro 30 giorni dalla richiesta di pagare la somma dovuta entro 40 giorni dalla notifica o di presentare ricorso allo stesso tribunale, in assenza di pagamento o di opposizione provvedera’ all’esecuzione forzata. I decreto può essere emesso con esecuzione provvisoria normalmente concesso nel caso in cui vi sia un pericolo di grave pregiudizio nel ritardo oppure se il ricorrente produce documentazione comprovante il suo diritto sottoscritta dal debitore. In questo il giudice puo’ autorizzare l’esecuzione senza osservanza di alcun termine. L’opposizione al decreto ingiuntivo deve essere effettuata entro 40 giorni presentando un atto di citazione.
L’opposizione può avere motivazioni di merito (debito inesistente o gia’ pagato) per vizi di notifica del decreto, con documentazione di quanto si sostiene. Se l’opposizione non e’ fondata su prova scritta o di pronta soluzione, il giudice solitamente concede l’esecuzione provvisoria del decreto. Se l’opposizione viene rigettata con sentenza passata in giudicato o provvisoriamente esecutiva il decreto acquista efficacia esecutiva.
Una attenta analisi della documentazione prodotta a sostegno del decreto ingiuntivo, ed una relazione tecnica effettuata da un esperto professionista possono determinare una valida e riconosciuta opposizione, che quasi sempre riesce ad ottenere anche la sospensione della provvisoria esecuzione.
Soltanto con l’opposizione al decreto ingiuntivo potete fare valere le Vostre ragioni richiedendo la revoca del provvedimento impugnato. E quindi, opponetevi al decreto ingiuntivo.
L’opposizione al decreto ingiuntivo può far emergere l’applicazione di interessi ultralegali, l’ anatocismo, le commissioni di massimo scoperto , le spese che sono state trasformate in capitale producendo ulteriori interessi e commissioni e gli eventuali vizi contrattuali.
Il decreto ingiuntivo verrà invalidato poiché contiene voci di costo illegittime che nel tempo hanno contribuito ad alterare il saldo che non è certamente liquido e neppure esigibile.
PIGNORAMENTO BLOCCO SFRATTI 2012 E POI? TUTTI SOTTO UN PONTE!
9:14 pm in AVVOCATO PIGNORAMENTO, INTRO by dallasdon
BLOCCO “SFRATTI” 2012
(decreto-legge “Milleproroghe”)
TABELLA SINOTTICA
Numero del blocco
E’ il 27° a far tempo solo dal 1978 (legge equo canone).
Tipologia sfratti
Solo quelli per finita locazione riguardanti immobili abitativi.
Durata
Fino al 31.12.2012.
Inquilini
Inquilini con “reddito annuo lordo complessivo familiare” inferiore a 27.000 euro, che siano o abbiano nel proprio nucleo familiare
- persone ultrasessantacinquenni
- malati terminali
- portatori di handicap con invalidità superiore al 66 per cento
e che non siano “in possesso” di altra abitazione adeguata al nucleo familiare nella regione di residenza.
Alle stesse condizioni di reddito e di non possidenza, la sospensione si applica per nuclei familiari con figli fiscalmente a carico.
Comuni
1) Comuni capoluogo di provincia
2) Comuni, confinanti con i capoluoghi di provincia, con po-polazione superiore a 10.000 abitanti
3) Comuni ad alta tensione abitativa (Delibera Cipe n. 87/03)
Gli elenchi dei Comuni di cui ai numeri 1, 2 e 3 sono presenti sul sito www.confedilizia.it.
Documentazione
La sospensione dell’esecuzione scatta in concreto a seguito della pre-sentazione “alla cancelleria del Giudice procedente” o all’Ufficiale giudiziario procedente dell’autocertificazione redatta con le modalità di cui agli artt. 21 e 38 del d.p.r. n. 445/2000 attestante la sussistenza dei singoli requisiti richiesti e sufficienti.
Contestazione
Il proprietario può contestare la sussistenza in capo al conduttore dei requisiti richiesti per la sospensione dell’esecuzione tramite ricorso al competente Giudice dell’esecuzione, che deciderà con decreto, av-verso il quale potrà proporsi opposizione al Tribunale collegiale.
Canone
Il conduttore, per tutto il periodo della sospensione, deve corrispon-dere al locatore – oltre all’Istat e agli oneri accessori – un canone aumentato del 20% (che non esime lo stesso dal risarcimento dell’e-ventuale maggior danno) e decade dalla sospensione in caso di mo-rosità, salvo sanatoria avanti il Giudice.
Proprietari
Il proprietario può evitare la sospensione dimostrando – sempre tramite specifico ricorso al competente Giudice dell’esecuzione, che deciderà con decreto avverso il quale potrà proporsi opposizione al Tribunale collegiale – di trovarsi nelle stesse condizioni richieste all’inquilino per ottenere la sospensione o nelle condizioni di “neces-sità sopraggiunta dell’abitazione”.
Benefìci fiscali
Nel periodo di sospensione i canoni percepiti dai proprietari interes-sati non sono imponibili ai fini delle imposte dirette, limitatamente ai Comuni di Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Roma, Bari, Napoli, Palermo, Messina, Catania, Cagliari e Trieste, nonché ai Comuni ad alta tensione abitativa con essi confinanti.
Di tali benefici fiscali non si tiene conto ai fini della determinazione della misura dell’acconto dell’Irpef dovuto per l’anno 2013.
Fonte: Confedilizia, Ufficio Studi
agenzia delle entrate deve dimostrare inesistenza fatture
8:30 pm in AVVOCATO AGENZIA DELLE ENTRATE, AVVOCATO ESTEROVESTIZIONE, AVVOCATO TRIBUTARIO, INTRO by dallasdon
Spetta all’ufficio dimostrare l’inesistenza delle operazioni commerciali fatturate
Ma quando la spesa non è regolarmente documentata da fattura, è il contribuente a dover dimostrare che, a fronte dei maggiori ricavi accertati, sono stati sostenuti costi inerenti all’attività esercitata
Con la sentenza n. 18710 del 23/9/2005, la Corte di cassazione ha stabilito che nelle ipotesi in cui l’ufficio ritenga che le fatture contabilizzate da un’impresa siano relative a operazioni inesistenti, non spetta al contribuente provare il contrario, ovvero l’effettività delle operazioni fatturate, bensì all’Amministrazione finanziaria dimostrare che le stesse non siano mai state poste in essere.
La Commissione tributaria regionale di Palermo aveva legittimato il recupero fiscale scaturente da un avviso di accertamento con il quale venivano disconosciuti, tra l’altro, taluni costi ritenuti relativi a operazioni inesistenti.
In particolare, l’ufficio finanziario aveva sostenuto, con una motivazione collegata “per relationem” a un processo verbale della Guardia di finanza, che la struttura aziendale non risultava idonea all’effettuazione dei lavori descritti nelle fatture esibite dal contribuente.
I giudici d’appello, considerato che la parte aveva omesso di depositare una perizia tecnica descrittiva dello stabilimento industriale, che pure aveva preannunciato di voler produrre, e non aveva fornito nessuna prova in ordine all’effettività delle prestazioni fatturate, avevano ritenuto che il recupero fiscale potesse essere legittimato per mancata produzione della prova contraria.
La suprema Corte ha invece sancito che, essendo già di per sé la fattura strumento idoneo, a norma dell’articolo 21 del Dpr 26 ottobre 1972 n. 633, a documentare un costo sostenuto dall’impresa, “nella ipotesi di fatture che l’Amministrazione ritenga relative ad operazioni inesistenti, non spetta al contribuente provare che l’operazione è effettiva, ma spetta all’Amministrazione, che adduce la falsità del documento e, quindi l’esistenza di un maggiore imponibile, provare che l’operazione commerciale, oggetto della fattura, in realtà non è stata mai posta in essere“(1).
La sentenza in commento presenta spunti interessanti, poiché, se in relazione alla concreta fattispecie delle fatture per operazioni inesistenti si ribadisce che l’onere della prova è a carico degli uffici finanziari, si conferma pure che in linea di principio è il contribuente che, se vuole contestare gli elementi e le situazioni presi a base delle rettifiche reddituali, deve dimostrare l’infondatezza degli stessi, ovvero “sostenere l’esistenza di circostanze modificative o estintive dei medesimi“.
Conseguentemente, ne deriva che, se il contribuente vuole far valere il disposto di cui all’articolo 109, quarto comma, del Tuir(2), che ammette la deducibilità dei componenti negativi risultanti da elementi certi e precisi, deve essere in grado di documentare l’esistenza di costi superiori a quelli dichiarati e/o considerati dall’ufficio in sede di determinazione del reddito d’impresa.
In buona sostanza, se il costo che un’azienda vuole portare in diminuzione dal reddito è documentato da fattura datata, numerata e provvista degli elementi prescritti dal citato articolo 21 del Dpr 633/1972, l’ufficio può valutare la sussistenza degli elementi previsti dalla normativa fiscale ai fini della deducibilità del costo (e dell’eventuale detraibilità dell’imposta), quali la competenza, l’inerenza, la congruità, ma per mettere in discussione l’effettività dell’operazione commerciale alla quale la fattura si riferisce, deve poter fornire la prova che la prestazione di servizi e/o la cessione di beni non siano mai state poste in essere. Invece, nel caso in cui la spesa non risulti regolarmente documentata da fattura, non può che essere il contribuente stesso a dimostrare che, a fronte dei maggiori ricavi accertati dall’ufficio, sono stati sostenuti costi imputabili al medesimo periodo d’imposta e inerenti all’attività esercitata.
NOTE:
1) I giudici di legittimità hanno fatto esplicito rinvio a quanto già dedotto nella sentenza Cass. 5 febbraio 1997, n. 1092, dove si definisce “ineccepibile” il principio secondo cui “l’onere di provare i componenti negativi del reddito grava sul contribuente che li indica in deduzione“. Principio che, tuttavia, si ritiene che non possa trovare applicazione nel caso di specie, in quanto l’operazione ritenuta inesistente risulta documentata dalla stessa fattura.
2) “Le spese e gli oneri specificatamente afferenti i ricavi e gli altri proventi, che pur non risultando imputati al conto economico concorrono a formare il reddito, sono ammessi in deduzione se e nella misura in cui risultano da elementi certi e precisi” (Articolo 109, comma 4, ultimo periodo, del Dpr 917/86, come modificato dal Dlgs 344/2003).
Esterovestizione azienda trasporti in Slovacchia
4:32 pm in AVVOCATO AGENZIA DELLE ENTRATE, AVVOCATO ESTEROVESTIZIONE, AVVOCATO TRIBUTARIO by dallasdon
Una società operante in Italia nel settore dei trasporti su strada è finita nel mirino della Guardia di Finanza di Verona perché ha omesso di dichiarare il reddito conseguito nell’esercizio della propria attività d’impresa, presentando le dichiarazioni dei redditi relative agli anni compresi tra il 2007 ed 2010 nello Stato di formale residenza fiscale (Slovachia) dove l’aliquota d’imposta applicata (19%) è inferiore a quella prevista in Italia (27,50%). E’ un tipico caso di esterovestizione ma in Slovachia venivano depositati anche i redditi conseguiti lavorando in Italia.
Attraverso l’attività informativa e i canali di cooperazione internazionale attivati dal II Reparto del Comando Generale della Guardia di Finanza, i finanzieri sono riusciti a ricostruire il volume d’affari e le movimentazioni effettuate dalla società. Complessivamente è stato accertato che la società verificata, nel corso degli anni, non ha istituito e tenuto tutti i registri contabili (libro giornale e registri IVA degli acquisti e delle vendite) e sociali (libro soci, libro dei verbali delle assemblee, libro inventari) prescritti dalla normativa nazionale ed ha omesso di dichiarare i redditi prodotti che ammontano, complessivamente, a circa 23 milioni e 400.000 euro.
Se fosse stata in Italia, aggiungiamo noi, avrebbe dovuto dare quasi tutto il proprio reddito allo stato italiano. E quindi ci chiediamo noi chi è il criminale? Lo stato che infligge tasse da usurai o le povere aziende supertartassate? A voi l’ardua sentenza. avvocatogratis.org